Barba Rosa

2016 – Photos and Drawings

Barba Rosa, (pink beard) is a reflection on identity, a game to be me and the other, a disguise, a constant transformation. In the photographs I transform my identity with very simple elements to which I associate the exterior characteristics of man and woman: a blue shirt and a beard, a pink shirt and a long hair wig. My face is not visible, I  only show  male and female characters. In watercolors I do obsessive research to find a form I never meet. The drawings are always identical and always different, they are constantly transformed into each other, they support each other through color.

Barba Rosa è una riflessione sull’identità, un gioco ad essere io e anche l’altro, un travestimento, una trasformazione
costante. Nelle fotografie trasformo la mia identità con degli elementi molto semplici a cui associo le caratteristiche esteriori dell’uomo e della donna: una camicia azzurra e una barba, una camicia rosa e una parrucca con i capelli lunghi. Il mio volto non è visibile per manifestare solo i caratteri del femminile e del maschile. Negli acquerelli compio una ricerca ossessiva per trovare una forma che non mi soddisfa mai. I disegni si ripetono sempre identici e sempre diversi, si trasformano l’uno nell’altro costantemente, si appoggiano l’uno sull’altro attraverso il colore.

 

Testo di Silvia Litardi

 

Barba Rosa è composto da:

  • 2 stampe fotografiche 100 x 130 cm
  • 60 acquerelli 20 x 15 cm
  • 1 performance inedita

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L’acquerello è scivolato sulla carta, le due tinte dominanti, rosa e azzurro si sono alternate sui fogli neutri per combinarsi con un colore bruno utilizzato per comporre barbe o capelli; 60 sono le siluette che Sara Basta ha realizzato in una unica sessione di lavoro, scegliendo volutamente un piccolo formato dove registrare il risultato differente di gesti sempre uguali: piccole variazioni e spostamenti minimi apprezzabili davanti alla serie completa. Astratta è la tensione a cui la dannata forma conosciuta non si arrende; le macchie di colore vorrebbero tenersi lontane da un possibile contorno e, ciò nonostante, assomigliano a maglie azzurre e rosa, barbe o capelli lunghi. Ripetere lo stesso gesto sfidando la serialità, tentare di disperdere il soggetto nella riproduzione per rammentare che è “indubbiamente un segno grafico a dar vita al genere della stragrande maggioranza delle persone”[1].

Urge una precisazione: non pretendo vincolare il lavoro di Sara Basta a una teoria piuttosto che ad un’altra, piuttosto rilevo il richiamo a libri, ricerche e pensieri che l’opera mette in azione nel mio archivio memoriale; non apparati teorici per spiegare o tradurre un’opera ne’, viceversa, un’opera ad illustrare una teoria quanto piuttosto una corrispondenza transitiva che fa emergere le une alle altre, senza soluzione di continuità. Fatta questa premessa, posso dire che il tema centrale nel lavoro “Barba Rosa” non pare essere la questione di genere, quanto piuttosto la messa in scena, in piazza o all’opera del genere che pretende centralità, reclama una scena in cui giocare liberamente. L’opera “Barba Rosa” è questo gioco in essere. “Cercare nella forma conosciuta per trovare un particolare nuovo, approfondirlo, ricominciare la trasformazione” dice l’artista per descrivere l’approccio pittorico che l’ha guidata nella produzione degli acquerelli e che informa le altre componenti di “Barba Rosa”.

Durante la giornata inaugurale, nell’arco di un’ora, il pubblico assiste ad un’azione che vede l’artista stessa, evidentemente segnata all’anagrafe di sesso femminile, partire da una condizione di riconoscibilità del genere A ad un’altra condizione di riconoscibilità B (o irriconoscibilità?).

Una lenta vestizione e sovrapposizione di un numero considerevole di indumenti presi da un cumulo messo a disposizione da 16 Civico: i due elementi della performance, l’artista e i vestiti, inizialmente ben distinti, al termine del tempo stabilito saranno una cosa sola: il corpo “sovraccoperto” diventa illeggibile tanto quanto il genere di appartenenza; gli indumenti stessi, stressati nel loro uso, perdono la loro funzionalità. Una Venere sopraffatta dagli stracci, infagottata da un ammasso di calze, magliette, gonne e maglioni, è ancora una Venere? Piuttosto che aggrapparsi ad un mito, il nuovo corpo risultante dalla performance, prende su di sé l’ “alleanza plurale” di una umanità che riconosce nell’interdipendenza lo spazio dell’azione e del discorso.

Già in “Vestiti per l’amore”, serie fotografica del 2008, vestiti cuciti per essere indossati in coppia, l’artista metteva in scena il vincolo, in quel caso sentimentale, tra due persone, un legame ambivalente e persistente che attraversa tutta la produzione dell’artista, migrando da una coppia amorosa a quella genitoriale e parentale fino a comunità più ampie. Forse questi vestiti trasformisti Sara li assemblava già da bambina sotto al tavolo della cucina dove adorava passare il tempo, la zona di casa in cui le piaceva di più giocare, mentre intorno famiglia e amici si muovevano nei gesti quotidiani di adulti.

Il travestimento era l’altro gioco preferito.

“Barba Rosa” inizia proprio con un travestimento, con due ritratti fotografici che quasi funzionano da manifesto: l’artista è in posa e recita il maschile e il femminile associandovi poche caratteristiche stereotipe: una camicia azzurra e una barba, una camicia rosa e una parrucca con i capelli lunghi.

Il volto rimane invisibile.

 

[1] Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Edizioni Nottetempo, Milano, 2017, p. 50



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